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Carmine (Carlo) Briscese è terzo di cinque figli. Suo padre era sellaio,
realizzava basti, collari, bardature, finimenti e quanto serviva per
le cavalcature da soma e da tiro utilizzate nei lavori agricoli dai
contadini. Condivideva con essi gli alti e bassi della dura vita dei
campi, le difficoltà, gli stenti. Ma anche il valore
dell’amicizia, della solidarietà, della parola data. Fu per
questo, più che per convinzioni ideologiche, che accettò
l’incarico di assessore nelle
amministrazioni comuniste che governarono Venosa negli anni
difficili del dopoguerra.
Prima
della guerra il padre aveva avuto una macelleria equina che poi
diede in affitto. Dall’affittuario prendeva pellami e carne come pagamento del canone. I pellami li usava nella selleria,
mentre la carne veniva bollita e conservata in gelatina,
all’interno di giare di creta: era una preziosa riserva alimentare per la sua famiglia, da consumare con parsimonia.
Durante
il fascismo Carmine era stato, come tutti i ragazzi, un Figlio della
Lupa. Davanti alla casa del nonno
osservava i giovani che facevano gli addestramenti del premilitare. Ma
egli non amava la disciplina, né
la vita militare, né la guerra. Osservava con poco interesse i
soldati alloggiati nel castello o il reparto di cavalleria accampato
davanti alla fontana normanna. Sentiva di essere uno spirito libero.
Un giorno a casa giunse la
notizia che un suo zio era stato fatto prigioniero dagli Inglesi e
mandato in un campo di prigionia in India. I suoi ne parlavano con
preoccupazione.
Un altro giorno seppe che a Venosa, presso la grande
masseria dei Briscese - omonimi ma non parenti -, erano stati
internati dei prigionieri inglesi. Volle andare a vederli. Certo
erano strani nei loro pantaloncini corti, ma non gli sembrarono
cattivi, anzi, furono persino gentili con lui: gli avevano offerto
del chewing gum.
Invece gli incutevano più paura i tedeschi. Si
diceva che un grosso distaccamento di truppe tedesche era accampato al Pantano, tra
Venosa e Palazzo San Gervasio.
Ed ecco che all’improvviso giunsero
in paese a bordo di moto sidecar, con le loro impeccabili uniformi.
Andarono sul Municipio e fecero bandire che chiunque avesse delle
armi in casa doveva consegnarle in ventiquattro ore, pena la
fucilazione.
Anche
suo padre, a malincuore, dovette separarsi da una doppietta a cui
teneva moltissimo. Di notte c’era l’oscuramento obbligatorio e
una sera che sua madre dimenticò di tirare i tendoni alla finestra per poco non li
arrestarono tutti per collaborazione con il nemico.
Un’altra
volta gli capitò di assistere a un duello aereo mentre si trovava a
Piazza Municipio. Un aereo da trasporto tedesco avanzava nel cielo
quando venne a incrociare una squadra di sei caccia americani a
doppia fusoliera,
(P
38) che volavano
a bassa quota lungo un canalone. Due di questi si sganciarono dalla squadra. Dopo averlo
affiancato, fecero prima un movimento oscillante di ali, forse a
voler intimare una resa, e
dopo lasciarono partire lunghe sventagliate di mitragliatrice contro il disarmato aereo tedesco che, lasciandosi dietro una
lunga scia nera di fumo, cominciò subito a perdere quota. Carmine
sentiva i bossoli cadere intorno a lui, sulla piazza e contro i muri
della Cattedrale, ma con incoscienza non smetteva di guardare la
scena. Suo fratello Vincenzo in quel momento ne vide, invece, l'atto
finale. Era in campagna, a pochi chilometri da Venosa, dove si era
recato per raccogliere steli di grano che servivano al padre per
preparare basti da soma. Sentì il rombo crescente che si avvicinava.
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