|
- LA
PARTENZA
- Molti
studiosi del fenomeno migratorio con relativa facilità hanno
osservato come l’idea dell’emigrazione negli Stati Uniti si
sia diffusa in Italia, prima al Nord e, a partire dagli anni 1880/1890,
al Sud in maniera subitanea ed al tempo stesso capillare, in
vastissime zone e vastissimi strati sociali. La cultura
dell’emigrazione è in primo luogo il presentarsi, alla mente di
milioni di persone, di una possibilità come soluzione di
problemi, economici innanzitutto, altrimenti irrisolvibili, come
speranze di un futuro altrimenti chiuso.
- Come
si diffonde questo mito? Prima di tutto per vie interne alle
comunità contadine. Nessuna azione dall’alto avrebbe potuto
raggiungere il livello di capillarità e di forza trascinante,
rappresentato, semplicemente, dalla comunicazione diretta con
coloro che avevano già vissuto o stavano vivendo questa
esperienza. Sono le lettere che rendono note a coloro che sono
rimasti le difficoltà, certo, ma anche le nuove possibilità
offerte dagli Stati Uniti: la disponibilità di posti di lavoro, i
livelli spesso incredibilmente alti di salario, i casi di paesani
già riusciti a far fortuna
ma ancor più forte è il messaggio più diretto delle rimesse,
dei soldi inviati a casa dagli emigranti, prova concreta delle
possibilità non solamente di sopravvivere in terra straniera ma
anche di risparmiare somme considerevoli. Sono anche i racconti
diretti degli emigranti di ritorno che fanno spesso da tramite
diretto per l’emigrazione dei loro compaesani.
- Assai
spesso però di questi mezzi di comunicazione diretta si valgono
forze economiche complesse: dagli imprenditori americani che
chiedono ai loro dipendenti italiani di scrivere a parenti ed
amici consigliando loro di raggiungerli (allargando così la
disponibilità di forza lavoro), alle compagnie di navigazione ed
ai mediatori di manodopera. Ad una diffusione spontanea del mito
si accompagna quindi un’azione accurata di propaganda
che passa anche per la diffusione di volantini, manifesti
(come quello raffigurante un emigrante che usciva dalla fabbrica
con la borsa piena di dollari), annunci liberi, che da a ciascuno
la possibilità di spostarsi e cercare la propria strada.
-
- Va
sottolineato d’altra parte che l’efficacia di una tale
pressione sarebbe stata modesta se non si tiene conto delle
condizioni delle campagne italiane all’epoca: prima di tutto la
crisi agraria, legata alla grande
depressione europea ed americana e ancora il peso delle lotte
contadine e della loro sconfitta. Le sollevazioni agricole
segnavano infatti, spesso, l’estremo tentativo di conquistarsi
un modo di vita decente nella propria terra: la loro sconfitta
indicava l’emigrazione come unica possibilità di un futuro
migliore. Le partenze seguono infatti l’andamento della crisi
agraria, con un primo picco nel 1883 ed un secondo picco nel 1887.
- Dopo
il 1896 inizia a prevalere la dinamica economica dei mercati
esteri. I nostri connazionali sono attratti dagli effetti del
ciclo economico positivo che interessa Francia, Germania e Stati
Uniti. Nonostante i motivi economici (e in qualche caso politici)
quella di emigrare rimane una decisione individuale. Nello stesso
Paese, nelle stesse condizioni, alcuni decidono di restare, altri
di emigrare. E allora via. Si parte. Giusto il tempo di vendere le
proprie cose, a volte piccoli appezzamenti di terreno, la casa, se
si aveva, gli animali e gli attrezzi da lavoro, per procurarsi i
soldi per l’acquisto del biglietto per il viaggio e disporre di
una piccola riserva per
affrontare le prime spese nel paese d’arrivo.
- Le migrazioni
verso l’America assumono così un valore di partenza definitiva.
Julia
Goniprow, emigrata negli Stati Uniti dalla Lituania nel 1889,
sintetizza l’esperienza di moltissimi, anche in Italia e ad
Ischia:
- «Il giorno in cui
sono partita mia madre mi ha accompagnata alla stazione
ferroviaria. Quando l’ho salutata mi ha detto che per lei era
come veder chiudere la mia bara. Non l’ho mai più vista.»
(1)
-
- Il
tragitto inizia con il giro dei saluti a parenti ed amici e poi ci
si avvia verso il porto d’imbarco: Napoli o Genova. E anche in
questi porti intorno agli emigranti circolano faccendieri senza
scrupoli che cercano di approfittare dell’ignoranza o della
necessità per spillare soldi all’emigrante.
- Prima
dell’imbarco i passeggeri venivano lavati con un bagno
disinfettante, i loro bagagli disinfettati e dovevano passare una
prima visita medica. Poiché le compagnie marittime potevano
pagare una multa di 100$ per ogni persona cui veniva rifiutato
l’ingresso negli Stati Uniti, queste si rifiutavano di imbarcare
chiunque apparisse malato o menomato.
- Le condizioni di viaggio
variavano molto a seconda se si viaggiava nelle stive o in prima e
seconda classe. Viaggiare nelle stive significava scarsa
ventilazione, spazi ristrettissimi, assenza assoluta di privacy e
rumore assordante, visto che in fondo alla stiva vi erano i
meccanismi di direzione della nave. Tanto erano difficili
le condizioni dei passeggeri ammassati
nelle stive che un rapporto al Congresso degli Stati Uniti
del 1900 concluse che le condizioni nelle stive erano non solo
inumane ma anche dannosi alla salute ed alla morale.
- Per molti italiani, ma anche per molti
ischitani, il viaggio verso le Americhe era anche il loro
primo contatto con un’imbarcazione sul mare.
- Le tempeste ed il
mal di mare aggravavano ancor di più le già gravi condizioni del
viaggio.
-
-
«Ovviamente eravamo nella stiva.
Ciascuno aveva del cibo con una puzza diversa e l’aria era così
spessa e densa di fumo e secrezioni corporali che la testa
prudeva. E quando te la grattavi la mano era piena di pidocchi.
Questo l’abbiamo patito per sei settimane.» (Testimonianza
del 1908)
-
- «Non
c’è né spazio sotto coperta né sul ponte. I 900 passeggeri
sono stipati come bestie. Col tempo buono è impossibile
passeggiare sul ponte e con quello cattivo egualmente impossibile
respirare aria pulita fra le cuccette. Le stive delle moderne navi
dovrebbero essere considerate inadatte al trasporto passeggeri.» (Scrittore Edward Steiner). (2)
|
|
- L'ARRIVO
- Sicuramente
il momento più importante ed atteso per l’emigrante, dopo una
traversata durata dagli 8 ai 14 giorni verso gli Usa o il Canada,
dai 25 ai 30 giorni per il Brasile o l’Argentina, era l’arrivo.
Il punto d’ingresso principale negli Stati Uniti era New York,
dove dal 1855 era attiva la stazione di ricevimento e sosta di
Castel Garden (che era stata prima una fortezza e poi un teatro).
Castel Garden chiuse nel 1890 anche a seguito di polemiche su
presunte truffe ai danni degli emigranti. Il 1° gennaio 1892 apriva
il primo nucleo di Ellis Island.
- Per
chi arrivava a Boston, il secondo porto d’ingresso, vi era un cupo
capannone messo a disposizione dalle Compagnie marittime. A
Baltimora gli immigrati venivano ispezionati al Baltimora &
Ohio Railroad Reception Center. Gli immigrati (principalmente
asiatici) in arrivo a San Francisco erano esaminati ad Angel Island.
Per chi arrivava in Canada, il passaggio obbligato era il Molo 21 (
Pier 21 ). In Brasile i molti Italiani diretti a Sao Paulo
sbarcavano nel porto di Santos ed erano avviati verso l’Hospedaleria
de Immigrantes prima di raggiungere i nuovi luoghi di residenza.
Montevideo, Mar del Plata e Buenos Aires erano i porti d’arrivo in
Uruguay e Argentina.
- Ellis
Island era stata disegnata per “lavorare”
migliaia di immigrati al giorno, spesso più di 5000. Il ciclo di
ispezione doveva funzionare come un’efficiente catena di montaggio
con agenti federali che esaminavano sistematicamente il candidato
per verificare che, come richiede la legge sull’immigrazione,
avesse senza dubbio diritto allo sbarco. Il tasso di rigetto era
solo del 2% ma circa il 20% veniva tenuto per più giorni, al fine
di completare esami supplementari. Va fatto notare che questa “catena
di montaggio” si applicava solo a chi viaggiava nelle stive (o
terza classe), mentre chi viaggiava in prima o seconda classe poteva
essere ispezionato a bordo per poi sbarcare al molo di arrivo.
Queste ispezioni erano molto più superficiali tanto da spingere
alcuni emigranti, che temevano di non superare le visite più
rigorose di Ellis Island, a pagare il più caro biglietto di seconda
classe.
- Appena
la nave attraccava al molo sul fiume Hudson ai passeggeri veniva
ordinato di raccogliere i propri bagagli e di raccogliersi sul ponte
per l’appello. Ognuno portava cucito sugli abiti un cartellino con
un numero corrispondente al libro mastro dei passeggeri. Secondo
questa numerazione gli emigranti venivano trasferiti sui traghetti
che li avrebbero trasferiti ad Ellis Island.
- Questi traghetti,
noleggiati dalle Compagnie di navigazione, erano di solito
sovraffollati e potevano tenere a malapena il mare. Una
testimonianza ricorda: « Il
sole picchiava sul tetto di legno. I finestrini erano bloccati. In
piedi, non potevamo muoverci di un centimetro. I bambini piangevano
ininterrottamente ed il nervosismo cresceva ».
- Alla
fine i passeggeri erano fatti scendere da ispettori che urlavano
ordini in molte lingue diverse, messi in fila e fatti entrare
nell’edificio principale. Appesantiti dai bagagli di tutti i tipi
e spesso trascinandosi dietro uno o più bambini gli immigranti
iniziavano la fase decisiva del loro viaggio: le ispezioni, le
visite mediche e gli interrogatori.
- Per
la maggior parte di loro l’esperienza di Ellis Island durava dalle
4 alle 5 ore ed alla fine ricevevano il permesso allo sbarco e
venivano indirizzati verso il molo del traghetto per New York o
verso la biglietteria ferroviaria. All’uscita ad attenderli
c’erano spesso parenti o conoscenti. Prima di lasciare l’isola
potevano utilizzare una serie di servizi, gestiti tutti da privati,
come la vendita di biglietti ferroviari, il cambio della valuta,
l’invio dei telegrammi ed altri (3).
-
-
Note 1, 2, 3: www.emigranti.rai.it."Il
mito dell'America"
|