Mario Gallù,  L’Isola d’Ischia da terra di emigranti a terra di immigrati               

Emigranti...  

LA PARTENZA, L'ARRIVO

 
LA PARTENZA
Molti studiosi del fenomeno migratorio con relativa facilità hanno osservato come l’idea dell’emigrazione negli Stati Uniti si sia diffusa in Italia, prima al Nord e, a partire dagli anni 1880/1890, al Sud in maniera subitanea ed al tempo stesso capillare, in vastissime zone e vastissimi strati sociali. La cultura dell’emigrazione è in primo luogo il presentarsi, alla mente di milioni di persone, di una possibilità come soluzione di problemi, economici innanzitutto, altrimenti irrisolvibili, come speranze di un futuro altrimenti chiuso.
Come si diffonde questo mito? Prima di tutto per vie interne alle comunità contadine. Nessuna azione dall’alto avrebbe potuto raggiungere il livello di capillarità e di forza trascinante, rappresentato, semplicemente, dalla comunicazione diretta con coloro che avevano già vissuto o stavano vivendo questa esperienza. Sono le lettere che rendono note a coloro che sono rimasti le difficoltà, certo, ma anche le nuove possibilità offerte dagli Stati Uniti: la disponibilità di posti di lavoro, i livelli spesso incredibilmente alti di salario, i casi di paesani già riusciti a far fortuna  ma ancor più forte è il messaggio più diretto delle rimesse, dei soldi inviati a casa dagli emigranti, prova concreta delle possibilità non solamente di sopravvivere in terra straniera ma anche di risparmiare somme considerevoli. Sono anche i racconti diretti degli emigranti di ritorno che fanno spesso da tramite diretto per l’emigrazione dei loro compaesani.
Assai spesso però di questi mezzi di comunicazione diretta si valgono forze economiche complesse: dagli imprenditori americani che chiedono ai loro dipendenti italiani di scrivere a parenti ed amici consigliando loro di raggiungerli (allargando così la disponibilità di forza lavoro), alle compagnie di navigazione ed ai mediatori di manodopera. Ad una diffusione spontanea del mito si accompagna quindi un’azione accurata di propaganda  che passa anche per la diffusione di volantini, manifesti (come quello raffigurante un emigrante che usciva dalla fabbrica con la borsa piena di dollari), annunci liberi, che da a ciascuno la possibilità di spostarsi e cercare la propria strada.
 
Va sottolineato d’altra parte che l’efficacia di una tale pressione sarebbe stata modesta se non si tiene conto delle condizioni delle campagne italiane all’epoca: prima di tutto la crisi agraria, legata alla grande depressione europea ed americana e ancora il peso delle lotte contadine e della loro sconfitta. Le sollevazioni agricole segnavano infatti, spesso, l’estremo tentativo di conquistarsi un modo di vita decente nella propria terra: la loro sconfitta indicava l’emigrazione come unica possibilità di un futuro migliore. Le partenze seguono infatti l’andamento della crisi agraria, con un primo picco nel 1883 ed un secondo picco nel 1887.  
Dopo il 1896 inizia a prevalere la dinamica economica dei mercati esteri. I nostri connazionali sono attratti dagli effetti del ciclo economico positivo che interessa Francia, Germania e Stati Uniti. Nonostante i motivi economici (e in qualche caso politici) quella di emigrare rimane una decisione individuale. Nello stesso Paese, nelle stesse condizioni, alcuni decidono di restare, altri di emigrare. E allora via. Si parte. Giusto il tempo di vendere le proprie cose, a volte piccoli appezzamenti di terreno, la casa, se si aveva, gli animali e gli attrezzi da lavoro, per procurarsi i soldi per l’acquisto del biglietto per il viaggio e disporre di una piccola riserva  per affrontare le prime spese nel paese d’arrivo. 
Le migrazioni verso l’America assumono così un valore di partenza definitiva. Julia Goniprow, emigrata negli Stati Uniti dalla Lituania nel 1889, sintetizza l’esperienza di moltissimi, anche in Italia e ad Ischia: 
«Il giorno in cui sono partita mia madre mi ha accompagnata alla stazione ferroviaria. Quando l’ho salutata mi ha detto che per lei era come veder chiudere la mia bara. Non l’ho mai più vista.» (1)
 
Il tragitto inizia con il giro dei saluti a parenti ed amici e poi ci si avvia verso il porto d’imbarco: Napoli o Genova. E anche in questi porti intorno agli emigranti circolano faccendieri senza scrupoli che cercano di approfittare dell’ignoranza o della necessità per spillare soldi all’emigrante. 
Prima dell’imbarco i passeggeri venivano lavati con un bagno disinfettante, i loro bagagli disinfettati e dovevano passare una prima visita medica. Poiché le compagnie marittime potevano pagare una multa di 100$ per ogni persona cui veniva rifiutato l’ingresso negli Stati Uniti, queste si rifiutavano di imbarcare chiunque apparisse malato o menomato. 
Le condizioni di viaggio variavano molto a seconda se si viaggiava nelle stive o in prima e seconda classe. Viaggiare nelle stive significava scarsa ventilazione, spazi ristrettissimi, assenza assoluta di privacy e rumore assordante, visto che in fondo alla stiva vi erano i meccanismi di direzione della nave. Tanto erano difficili  le condizioni dei passeggeri ammassati  nelle stive che un rapporto al Congresso degli Stati Uniti del 1900 concluse che le condizioni nelle stive erano non solo inumane ma anche dannosi alla salute ed alla morale.  
Per molti italiani, ma anche per molti  ischitani, il viaggio verso le Americhe era anche il loro primo contatto con un’imbarcazione sul mare. 
Le tempeste ed il mal di mare aggravavano ancor di più le già gravi condizioni del viaggio.

 

              «Ovviamente eravamo nella stiva. Ciascuno aveva del cibo con una puzza diversa e l’aria era così spessa e densa di fumo e secrezioni corporali che la testa prudeva. E quando te la grattavi la mano era piena di pidocchi. Questo l’abbiamo patito per sei settimane.» (Testimonianza del 1908)
 
«Non c’è né spazio sotto coperta né sul ponte. I 900 passeggeri sono stipati come bestie. Col tempo buono è impossibile passeggiare sul ponte e con quello cattivo egualmente impossibile respirare aria pulita fra le cuccette. Le stive delle moderne navi dovrebbero essere considerate inadatte al trasporto passeggeri.» (Scrittore Edward Steiner). (2)

 

L'ARRIVO
Sicuramente il momento più importante ed atteso per l’emigrante, dopo una traversata durata dagli 8 ai 14 giorni verso gli Usa o il Canada, dai 25 ai 30 giorni per il Brasile o l’Argentina, era l’arrivo. Il punto d’ingresso principale negli Stati Uniti era New York, dove dal 1855 era attiva la stazione di ricevimento e sosta di Castel Garden (che era stata prima una fortezza e poi un teatro). Castel Garden chiuse nel 1890 anche a seguito di polemiche su presunte truffe ai danni degli emigranti. Il 1° gennaio 1892 apriva il primo nucleo di Ellis Island.  
Per chi arrivava a Boston, il secondo porto d’ingresso, vi era un cupo capannone messo a disposizione dalle Compagnie marittime. A Baltimora gli immigrati venivano ispezionati al Baltimora & Ohio Railroad Reception Center. Gli immigrati (principalmente asiatici) in arrivo a San Francisco erano esaminati ad Angel Island. Per chi arrivava in Canada, il passaggio obbligato era il Molo 21 ( Pier 21 ). In Brasile i molti Italiani diretti a Sao Paulo sbarcavano nel porto di Santos ed erano avviati verso l’Hospedaleria de Immigrantes prima di raggiungere i nuovi luoghi di residenza. Montevideo, Mar del Plata e Buenos Aires erano i porti d’arrivo in Uruguay e Argentina.  
Ellis Island era stata disegnata per lavorare” migliaia di immigrati al giorno, spesso più di 5000. Il ciclo di ispezione doveva funzionare come un’efficiente catena di montaggio con agenti federali che esaminavano sistematicamente il candidato per verificare che, come richiede la legge sull’immigrazione, avesse senza dubbio diritto allo sbarco. Il tasso di rigetto era solo del 2% ma circa il 20% veniva tenuto per più giorni, al fine di completare esami supplementari. Va fatto notare che questa catena di montaggio” si applicava solo a chi viaggiava nelle stive (o terza classe), mentre chi viaggiava in prima o seconda classe poteva essere ispezionato a bordo per poi sbarcare al molo di arrivo. Queste ispezioni erano molto più superficiali tanto da spingere alcuni emigranti, che temevano di non superare le visite più rigorose di Ellis Island, a pagare il più caro biglietto di seconda classe. 
Appena la nave attraccava al molo sul fiume Hudson ai passeggeri veniva ordinato di raccogliere i propri bagagli e di raccogliersi sul ponte per l’appello. Ognuno portava cucito sugli abiti un cartellino con un numero corrispondente al libro mastro dei passeggeri. Secondo questa numerazione gli emigranti venivano trasferiti sui traghetti che li avrebbero trasferiti ad Ellis Island. 
Questi traghetti, noleggiati dalle Compagnie di navigazione, erano di solito sovraffollati e potevano tenere a malapena il mare. Una testimonianza ricorda: « Il sole picchiava sul tetto di legno. I finestrini erano bloccati. In piedi, non potevamo muoverci di un centimetro. I bambini piangevano ininterrottamente ed il nervosismo cresceva ».
Alla fine i passeggeri erano fatti scendere da ispettori che urlavano ordini in molte lingue diverse, messi in fila e fatti entrare nell’edificio principale. Appesantiti dai bagagli di tutti i tipi e spesso trascinandosi dietro uno o più bambini gli immigranti iniziavano la fase decisiva del loro viaggio: le ispezioni, le visite mediche e gli interrogatori.
Per la maggior parte di loro l’esperienza di Ellis Island durava dalle 4 alle 5 ore ed alla fine ricevevano il permesso allo sbarco e venivano indirizzati verso il molo del traghetto per New York o verso la biglietteria ferroviaria. All’uscita ad attenderli c’erano spesso parenti o conoscenti. Prima di lasciare l’isola potevano utilizzare una serie di servizi, gestiti tutti da privati, come la vendita di biglietti ferroviari, il cambio della valuta, l’invio dei telegrammi ed altri (3).
   
Note 1, 2, 3:  www.emigranti.rai.it."Il mito dell'America"
LA PARTENZA, L'ARRIVO

 

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