Sotto due bandiere - 1

 
Michele Brienza, 
soldato del Regio Esercito
 

 

Prima della guerra
Mio padre era un contadino, aveva una piccola proprietà di 25 tomoli in contrada Piro Sorbo ripartita tra terreni seminativi, vigneto e bosco. Possedevamo un gregge di pecore e anche un cavallo. I miei genitori vivevano stabilmente in campagna, in una masseria a circa 8 chilometri dal  paese.  Per farmi frequentare la scuola, mi avevano affidato a mia nonna e io vissi con lei fino all’età di 10 anni. Dopo la quinta elementare andai a vivere in campagna con i miei genitori, collaborando con loro nei lavori agricoli e nelle attività di pastorizia fino a quando partii militare.     

Ho un buon ricordo della mia adolescenza, non avevamo, infatti, problemi economici, coi proventi della nostra azienda  riuscivamo a vivere con decoro. Un certo benessere ce lo garantiva il nostro redditizio gregge di pecore, grazie al quale avevamo formaggio e lana da poter vendere. Per la cardatura portavamo la lana grezza  ad Avigliano, paese famoso per questa attività. Era una delle rarissime occasioni di viaggio. Impiegavamo sei o sette ore con il cavallo per compiere  i circa 40 chilometri di distanza tra i due paesi lungo i tratturi comunali.    

Michele Brienza con la nonna, 1922
Viaggiare era il mio sogno di ragazzo ma in quegli anni non era cosa facile, né frequente. Infatti nel 1930 era stata emanata una legge che vietava ai lavoratori di lasciare la loro residenza senza l’autorizzazione del prefetto. Eravamo tutti legati al paese e alla terra, indissolubilmente. Fu proprio per il desiderio di viaggiare che, all’insaputa dei miei genitori, feci domanda di arruolamento per la guerra di Spagna, come volontario. Loro lo seppero quando da Napoli arrivò la lettera con cui mi comunicarono che la domanda era stata respinta poiché ero ancora minorenne.

Non eravamo spaventati dalla guerra, anzi, noi ragazzi ne parlavamo con esaltazione, come se si fosse trattato di una festa. A casa avevamo una carta geografica dell’Africa, dove segnavamo le battaglie e le avanzate delle truppe nella guerra d’Abissinia: Adua, Amba Alagi, Adigrat, il lago Tana, Addis Abeba.  In quegli anni era Podestà Luigi Bochicchio. Io ero stato balilla durante il periodo della scuola, mi vestivo con camicia nera e fez.  

 
A 17 anni iniziai il servizio premilitare, durò tre anni. Pitocco, maestro elementare con i gradi di tenente della Milizia, il sabato comandava l’addestramento: formavamo i ranghi, marciavamo e, con una decina di vecchi fucili militari, prendevamo pratica con le armi. Una volta venni alle mani con un sergente maggiore reduce delle campagne d’Africa; mi aveva provocato e lo schiaffeggiai, così sospesi il servizio premilitare. Ma non me preoccupai granché, tutti sapevamo che di lì a poco ci sarebbero stati grandi eventi e passavamo quei giorni come se fossimo in uno stato di lieta attesa. Di tanto in tanto si organizzava qualche festa da ballo e il tempo libero lo dedicavamo alla caccia.
1940: sulle montagne della Grecia
La mia cartolina di chiamata alle armi arrivò il 2 febbraio del 1940.
Quel giorno tutto finì e tutto ebbe inizio. Con un compagno partii a piedi  per lo scalo di Forenza e di lì, con il treno, per il distretto militare di Potenza. 
Dopo la visita venni assegnato al 128° Reggimento di Fanteria di Firenze. Giunto a Firenze mi equipaggiarono: pantaloni alla zuava con le fasce gambiere, fucile 91, giberne con 72 cartucce.  A Firenze in un mese completai l’addestramento. Ero affascinato dalla bellezza di quella città. Nella libera uscita affollavamo i casini: erano pieni di belle donne.
 
Il 3 marzo 1940 eravamo in partenza per l’Albania. Viaggiammo in treno fino a Bari e di lì effettuammo la traversata per  Durazzo. Una volta a Durazzo venimmo smistati  all’84° Reggimento di Fanteria, sotto il comando del generale Nasci, e inviati alla caserma di Elbasan. Lì collaborammo anche alla costruzione della strada Labinot-Tirana,  aggregati  all’impresa italiana che stava realizzando l’opera. Intanto proseguiva la nostra preparazione militare. Ad Elbasan ebbi dal tenente i gradi di caporale, ma non li portai mai per evitare rogne e pericoli.
 
Il 10 giugno 1940 entrammo in guerra contro la Francia e la Gran Bretagna. 
Il mio battaglione venne inviato a presidiare il villaggio di Piskupia, ai confini con la Iugoslavia. Era estate e la vita nell’accampamento era accettabile, mentre ci giungevano notizie dei successi delle nostre truppe in Africa Orientale. Così arrivammo in autunno. 
                  All’improvviso ci comunicarono che eravamo in guerra anche contro la Grecia. 
                       
                  Il 28 ottobre il nostro battaglione lasciò Piskupia  per il fronte.  Dopo cinque giorni di marcia, resa difficoltosa dalle condizioni del terreno, giungemmo al lago di Pogradec. Eravamo euforici e fiduciosi dell’esito della guerra: 
 
...in due mesi spezzeremo le reni ai Greci e in 12 mesi occuperemo la Grecia !
 
Questo era il messaggio giuntoci dal Duce. I Greci si sarebbero arresi presto. Così pensavamo. 
Invece i Greci ci vennero incontro e avanzarono fino a Stavarova. Eravamo appena giunti  a Pogradec che il nostro battaglione subì un pesantissimo attacco di artiglieria. Per due ore consecutive rimanemmo sotto il fuoco delle batterie dei cannoni greci. Fu una strage,  del mio battaglione morirono in duecento fatti a pezzi dalle bombe, io stesso mi salvai  miracolosamente.

 

      
 
Mi avevano assegnato le mansioni di portaferiti di compagnia. Sulla divisa portavo la fascia con la croce rossa e l’unica arma in dotazione era una pistola calibro 9. Soccorremmo due fratelli di Firenze, entrambi feriti, si chiamavano Cutolo, uno di essi si salvò. 
Durante il bombardamento trovai riparo sotto un costone, cercando di coprirmi con la barella dalle schegge che volavano tutto intorno, mentre, per la polvere che si era sollevata,  facevo fatica pure a respirare. Fu la disfatta della divisione Taro, che subì gravissime perdite di uomini e di materiali. 
      
Quella notte, con una guida albanese, ripiegammo verso il monte Salaces. Marciammo tutta la notte con i muli e le salmerie. Lì mantenemmo il fronte per tutto l’inverno.     
 
La neve, fortunatamente, impediva l’avanzata dei Greci. Avevamo scavato le trincee e steso il reticolato tutto intorno, i nemici erano a meno di un chilometro da noi. Ogni giorno, con l’intento di demoralizzarci, si rivolgevano verso di noi con un altoparlante:  
 
“Italiani arrendetevi!”  
                                               dicevano, oppure: 
Venite qui e vi offriremo le sigarette”, 
                                                    o anche: 
Gettate le armi, fate combattere Mussolini!”.     
 

 Un giorno dei reparti greci da montagna, con gli sci, avanzarono velocemente verso di noi e presero prigionieri i soldati di una nostra intera compagnia che si trovava in una postazione avanzata. Tutti noi osservammo l’azione senza poter fare nulla, anche l’artiglieria non intervenne per non colpire i nostri compagni.
L’inverno fu terribile. Eravamo a circa 1.100 metri di altitudine e trascorremmo mesi nella neve, all’addiaccio,  coprendoci la testa in tre con un telo da tenda, seduti sull’elmetto, senza mai dormire. 
Eravamo laceri, i  pantaloni ghiacciati si spezzavano lasciandoci scoperte le gambe. I pidocchi ci martoriavano le carni e, tranne la testa, ricoprivano tutto il corpo. Si annidavano anche al di sopra del cappotto, al calore delle ascelle. 
I viveri arrivavano dalle retrovie, trasportati con i muli, quando era possibile; a volte stavamo giorni e giorni senza mangiare. L’unica consolazione era che i Greci avevano postazioni più elevate delle nostre e soffrivano il freddo come e più di noi.  
Il 13 aprile 1941, giorno di Pasqua, riprese l’avanzata.  I tedeschi avevano invaso la Grecia, prendendo le armate greche alle spalle. Le forze greche si coprirono la ritirata con un violento fuoco di artiglieria. I nostri reparti rispondevano al fuoco; finalmente erano arrivati rinforzi ed armamenti. 
Fui ferito leggermente a un piede da una pallottola vagante e venni assegnato al vettovagliamento. La notte trasportavamo il rancio e i rifornimenti in prima linea. Una notte avevamo anche un barile di cognac. Me ne riservai una buona parte e mi ubriacai fino a perdere conoscenza: rimasi tutta la notte disteso sulla terra finché non smaltii la sbornia.
Come addetto alle salmerie me la passai meglio, mangiavo con maggiore regolarità e, a volte, quando non si riusciva a raggiungere la prima linea, riportando indietro il vitto, spesso capitava di avere una razione supplementare. 
Molte volte con noi portavamo dei feriti nelle retrovie. I feriti meno gravi, come me,  rimanevano nelle retrovie e venivano impegnati in attività di carattere logistico. Riempivamo sacchi di terra da utilizzare per proteggerci dal freddo più che dal fuoco nemico. Utilizzavamo i sacchi anche per avvolgerci i piedi per evitare il congelamento che faceva più vittime del fuoco nemico. Avanzammo ancora fino ai confini greco-albanesi; era il 23 aprile 1941 quando la Grecia si arrese.Finalmente le nostre condizioni di vita migliorarono. I reparti vennero riequipaggiati e riorganizzati, ma la quiete durò poco.Infatti i reparti, appena erano in grado di essere operativi, venivano inviati  sul confine con la Jugoslavia, dove c’era stata la rivoluzione. Il governo alleato dell’Italia e della Germania era stato abbattuto e ora la Jugoslavia era un nemico in più.
  
1941-1943: guerra amara in Jugoslavia
Il mio reparto partì a luglio per il Montenegro, per il presidio di Berana, presso il comando della Divisione Venezia. A Berana la nostra postazione era fortificata. I civili entravano solo con il permesso rilasciato dalle nostre  autorità. I reparti di stanza nel presidio avevano il compito di scortare i convogli di viveri e di generi di sussistenza, che venivano inviati ai comandi delle unità italiane schierate sulla frontiera iugoslava, per proteggerli dagli  attacchi dei partigiani.
Per questo motivo si effettuavano regolarmente delle pericolose operazioni di rastrellamento sul territorio allo scopo di catturare i partigiani. Io non vi partecipai mai  perché mi assegnarono al magazzino e successivamente all’armeria.  Spesso dalle alture i partigiani attaccavano le  postazioni italiane con fucili mitragliatori, ma il nostro presidio non venne mai attaccato.
Un giorno una nostra colonna, composta da 36 mezzi militari e da 4 autotreni della Capulli, venne attaccata dai  partigiani non lontano dal nostro presidio. Fu un massacro, solo in pochi riuscirono a salvarsi.  La guerra iugoslava fu particolarmente cruenta. Si era verificato un episodio efferato nel quale si era distinta una donna comandante partigiana che aveva i gradi di colonnello. I partigiani avevano catturato un certo numero di prigionieri italiani, tra questi anche ufficiali, carabinieri e camice nere, che da loro erano particolarmente odiati. Proprio questi vennero seviziati, incidendo i loro gradi nella carne, evirati e infine fucilati nella fossa scavata da loro stessi. Questa storia ci aveva particolarmente sdegnati. Fu  promessa la vendetta, e furono gli alpini a catturarla e a giustiziarla...

Rimasi al presidio di Berana. Avevo degli amici conterranei tra cui due di Forenza (Perillo e Giammacco), uno di Maschito, uno di Barile e due di Muro Lucano.
Scrivevamo alle famiglie, ma era vietato raccontare fatti militari sia descrivere i posti dove eravamo di stanza, e ogni nostro scritto, prima di essere inviato, era sottoposto a rigida censura.
Le nostre famiglie ci scrivevano al seguente indirizzo: “Posta Militare 99 M”.    
Successivamente tolsero anche la M (Montenegro) per non lasciare alcun elemento utile per identificare la sede di destinazione che era oggetto di segreto militare.
    

 

 Nel 1942 ebbi un mese di licenza e tornai a casa. I carabinieri al mio arrivo mi diedero precise disposizioni su ciò che mi era consentito fare e dire in famiglia ma, soprattutto, in pubblico. Quando uscivo ero continuamente seguito, osservato, controllato, specie se mi avvicinavo a qualche amico o conoscente. Era vietato parlare di qualunque cosa fosse collegata al servizio militare e soprattutto era vietato esprimere notizie e opinioni sull’andamento della  guerra.  Rimasi sconvolto dalla miseria che regnava nel paese, mancava il pane, i generi alimentari erano somministrati con il tesseramento, mentre ogni altra cosa era praticamente introvabile o inaccessibile. Al posto delle scarpe erano usati e diffusi degli zoccoli di legno foderati con il feltro di vecchi cappelli. Mio padre per necessità aveva venduto gli animali.      
Tornai al fronte amareggiato per quello che avevo trovato al paese. La licenza successiva mi venne concessa il sei settembre 1943. Due giorni dopo mi trovavo a Belgrado dove avrei dovuto prendere il treno per l’Italia. Lì ci giunse, invece, la notizia della resa dell’Italia. 
8 settembre 1943: da Belgrado a Forenza
Non ebbi motivo di esultare, anzi, mi trovavo nella condizione di dover prendere una decisione che non sembrava per niente facile. Infine decisi con altri due compagni di rientrare comunque in Italia. Tornavo a casa!
Nei giorni successivi le cose per noi italiani si aggravarono. I tedeschi disarmavano e avviavano alla prigionia le forze armate italiane, a meno che non  decidevano  di collaborare con loro. Alcuni reparti italiani si opposero ai tedeschi e di conseguenza vennero sterminati. Questo fu anche  il tragico destino dei  miei compagni rimasti a  Berana: furono tutti uccisi dai tedeschi. La divisione Venezia si sciolse. Dei suoi effettivi molti si unirono alle formazioni partigiane iugoslave, alcuni  si unirono ai tedeschi mentre gli sbandati, a migliaia, cercavano di trovare un modo per tornare a casa. Molti di loro costituirono successivamente il grosso della divisione partigiana “Garibaldi”.
Nonostante fossimo i loro ex nemici, fummo generosamente aiutati dalle popolazioni locali che, con grande rischio e con molta umanità,  ci fornivano ospitalità, cibo:  un poco di polenta o, più frequentemente, del latte. Per ironia della sorte, nei lunghi giorni di viaggio, fui costretto a nutrirmi quasi esclusivamente di latte, nonostante fino ad allora  non ne avessi mai bevuto, poiché mi dava un particolare disgusto.  
Marciammo per giorni e giorni, preferendo le ore notturne in modo da non fare brutti incontri. A Belgrado calzavo delle scarpe nuove che avevo messo per andare in licenza. Dopo qualche giorno avevo i piedi che mi sanguinavano, per la costrizione e lo sforzo a cui li avevo sottoposti.
Finalmente arrivammo alle grotte di Postumia: qui i militari effettuavano una contumacia di diversi giorni nelle caserme prima di rientrare alle loro residenze. Ma, nonostante fossimo in Italia, non ci sentivamo affatto al sicuro, anzi. Ovunque i tedeschi catturavano e internavano gli sbandati italiani. 
     
Proseguimmo, così,  per  San Daniele sul Carso, dove c’era la stazione ferroviaria. Qui attendemmo tre giorni fino a quando giunse un treno; qualcuno disse che forse sarebbe arrivato a Bologna. Salimmo sopra in un numero impressionante. Una moltitudine di persone si sistemò fino sul tetto dei vagoni: molti di loro morirono asfissiati dalle esalazioni del fumo che si sprigionava dalla ciminiera della locomotiva.
Quel viaggio durò qualche giorno. Mentre viaggiavamo la fame e tutte le altre necessità si facevano sentire. In alcune contrade i contadini vendemmiavano. Vedendoli, imploravamo che ci dessero qualche grappolo di uva. Molti rispondevano alle nostre suppliche e lanciavano uva sul treno.
 
Arrivammo a Bologna e, di qui, riuscimmo a proseguire per l’Abruzzo. Ci fermammo definitivamente nella  piccola stazioncina di Vinchiaturo. Non vi trovammo alcuna autorità che sapesse fare o dire qualcosa. All’improvviso comparve un vecchio macchinista in pensione. Si mise alla guida del treno, ci urlò che lo avrebbe condotto a Benevento. Ci condusse in effetti fino a 8 chilometri da Benevento. Lì scendemmo. Io ripresi il cammino a piedi e così, qualche giorno dopo, ad oltre un mese dal suo inizio,  il mio lunghissimo viaggio si concluse. 
Finalmente ero a casa! Ripresi la mia vita mentre la guerra volgeva al termine. 
Il dopoguerra: alla ricerca del lavoro
Mi sposai nel 1945 e dopo il matrimonio mi richiamarono alle armi. Mi recai al distretto di Potenza dove  mi concessero l’esonero. Il mio servizio militare si era concluso per sempre.
In paese si moriva letteralmente di fame. Il denaro non valeva più nulla e nessuno lo accettava. Tutto si pagava con il grano, diventata unica moneta di scambio. Presi 15 tomoli di  terreni in affitto, il canone era esoso: 4/5 quintali per tomolo all’anno. Comprai un mulo, così potevo  integrare le modeste entrate andando al bosco. Acquistavo carbonella e la rivendevo. Allestii un deposito, uno dei miei migliori clienti era uno di Palazzo S. Gervaso detto Spezzatrave, vendeva calce e acquistava carbonella. Si lavorava fino a crepare, ma non si guadagnava niente.
Con tantissimi sacrifici, dopo 4 anni  riuscii a racimolare qualche lira per acquistare una casetta. Intanto i reduci di guerra, rientrati dai fronti e anche dai campi di prigionia,  trovarono ad attenderli  la disoccupazione,  le privazioni, la miseria. In quegli anni ci furono delle gravi agitazioni tra la popolazione contro quella povertà estrema, durante le quali si reclamava anche la distribuzione delle terre del latifondo e delle terre demaniali.
 
Nel dicembre del 1949 molti contadini poveri si recarono alla Difesa San Martino e occuparono le terre del demanio comunale. I promotori vennero arrestati e portati in carcere a Palazzo San Gervasio, dove si svolse anche il processo in Pretura.  Li difese l’avvocato Alfonso Andretta, di Forenza, emerito e notissimo legale, nonché grande proprietario terriero.
L’avvocato Andretta quando concluse l’arringa,  rivolgendosi al giudice disse:
 
 “... e poi, se questi sciagurati stanno in prigione,
chi zapperà le mie vigne?”
Furono subito rilasciati. 
 
Nel 1956 una terribile grandinata distrusse il raccolto. Eravamo pieni di debiti: l’affitto delle terre, le sementi.... così decisi di emigrare per un breve periodo di 5/6 mesi.  All’Ufficio di Collocamento feci domanda per la Francia, dove cercavano boscaioli. Mi chiamarono all’Ufficio Emigrazione per la visita medica e mi inviarono presso la ditta Parigi-Ras, a Bavincourt l’Arbret, nel Pas de Calais. Eravamo tre italiani. Io avevo una modesta pratica di taglialegna, acquisita nel Bosco Grande di Forenza, ma nessuno di noi conosceva quel lavoro che consisteva nel tagliare con estrema precisione  puntelle di pino per le miniere. A volte, ci capitava di tagliare pioppi per le cartiere. Imparai il mestiere da un tedesco, monsieur Toc, alloggiavo a casa sua, gli pagavo una retta mensile. Appresi a fondo le tecniche forestali e divenni un valente boscaiolo.
 
Così mandai a chiamare un amico da Forenza per lavorare in coppia e realizzare un maggior utile. Guadagnavo bene ed ero apprezzato dal principale della ditta. Ci spostavamo in tutta la regione con i nostri cantieri. Feci una breve parentesi di lavoro presso una fornace di terracotta, fu un’esperienza breve e deprimente; mi separai dall’amico e ritornai al vecchio lavoro di boscaiolo.
Nel 1961 mio padre, senza avvertirmi, vendette i suoi terreni.
Ora non avevo  più alcun motivo per ritornare a Forenza. Così  feci l’atto di richiamo per  mia moglie, che mi raggiunse  in Francia, e mandai nostro figlio a Milano presso dei parenti. Mia moglie collaborava con me al lavoro. 
 
Economicamente era un’attività soddisfacente. Avevo anche comprato un’auto usata. Dopo più di un anno mi si presentò un’occasione di lavoro a Milano. Accettai. Partimmo per l’Italia con la vecchia Citroen 424 carica di effetti personali, suppellettili e generi alimentari, ma, sulle tornanti del valico alpino, la nostra autovettura appena arrancava, così, poco per volta, buttammo tutta quella zavorra dal finestrino. A Milano frequentai per tre anni la scuola serale di disegnatore meccanico; ho svolto questo lavoro nelle aziende meccaniche fino alla pensione.

 

La guerra mi ha lasciato due dita congelate. Ricordo vividamente tutto il suo tragico orrore e spero che i giovani di oggi, come quelli di domani, non abbiano mai a provare ciò che ho vissuto e sofferto come tutti i giovani della mia generazione. Io, tutto sommato, mi considero uno fortunato. Quante volte ho pensato a  quel giorno, quando quella pallottola mi passò sotto il piede....”.
Michele Brienza è nato a Forenza  il 29 gennaio 1920, oggi vive a Milano.  
Questa intervista è stata rilasciata  a  Forenza, nel mese di ottobre 2005, a Renato Mancino.

                    Avanti                  Sotto due bandiere                  Home