1938: le leggi razziali in un paesello del sud
- un ricordo di Beniamino Placido -
 
a cura di Angelo Domenico e Pasquale LIBUTTI

 

 
   
 
 
Il 6 gennaio 2010 è venuto a mancare Beniamino Placido, originario di Rionero in Vulture.
Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona ed averlo amico ne conserverà per sempre un ricordo indelebile; allo stesso tempo, è una perdita dolorosa anche per tutti coloro che, pur non conoscendolo personalmente, attraverso la lettura dei suoi scritti hanno avuto occasione di coglierne la schietta, lucida e palpabile umanità, sale necessario della sua cultura.
Possiamo trovare molti dei suoi scritti (o comunque scritti dove di lui si parla) sul sito internet del quotidiano La Repubblica, semplicemente digitando il suo nome nell'apposito campo di ricerca. Dopo tanti anni è bello rileggerli ancora, riscoprendone spesso una sconcertante attualità, o il riaffiorare di ricordi della sua infanza e di quello che chiamava il suo "paesello". 
Riportiamo di seguito un suo articolo del 2003: la descrizione ironica e amara di come poteva essere vissuta, in un piccolo paese del Sud, la campagna contro gli ebrei lanciata dal regime fascista nel 1938. Un ricordo ancora vividamente condiviso, a Rionero, da chi ebbe la medesima esperienza: una imposizione astrusa, incomprensibile. Era il 1938, solo un anno prima che Hitler invadesse la Polonia iniziando la seconda guerra mondiale. Ormai l'Italia era stata già aggiogata da Mussolini al carro della Germania nazista.

 

 
          
        
 
 
 
I miei ricordi per il giorno della memoria
BENIAMINO PLACIDO, REPUBBLICA, 2 febbraio 2003, pagina 36, sezione cultura
Tratto da:
 
     
 
C' è stato anche quest'anno il «giorno della memoria».
Abbiamo deciso di dedicare un sacrificio (noi e i lettori) al culto della memoria. Per vedere dove sono andati a finire i giorni veramente importanti, decisivi, di tutti i nostri ieri. In prima persona.
Deve essere stato un giorno dell'ottobre 1938 quando anche nel mio paesello, un modesto paese della Basilicata, arrivò l'ordine di dare inizio alla campagna contro gli ebrei. L' ordine proveniva dal Fascio di Potenza.
Eravamo tutti convocati - noi che col Fascio c' eravamo già compromessi - a metterci in divisa e a presentarci tutti, un certo pomeriggio alle cinque, nella Casa del Fascio. Tutti, quale che fosse l'età che avevamo e la formazione cui appartenevamo.
Quindi anche io, che avevo otto o nove anni ed ero un semplice «balilla», poi anche i più anziani e più fortunati «balilla moschettieri» (beati loro, che bel fucile che avevano), poi anche gli «avanguardisti», poi infine i «giovani fascisti». E non mancavano le donne, suddivise nelle loro categorie. Insomma, eravamo in tantissimi.
Arrivò, quando arrivò, un giovane gerarca che ci regalò (a noi che ci aspettavamo chissà che cosa) una lunga concione sul tema: quanto bisogna detestare gli ebrei, quanto bisogna diffidare della loro perfidia, e come bisogna (bisognava) tenerli a bada. Del resto, militarmente addestrati come eravamo, mentalmente preparati come eravamo, non avremmo mancato di spiare, stanare e infine acchiappare tutti gli ebrei che potevamo. Tutto questo inframezzato da ampi squarci di drammatica eloquenza di cui quel giovane, inesperto ma indicatissimo gerarca si serviva - consultando di tanto in tanto gli appunti conservati in un quaderno - per rappresentarci tutte le nequizie, tutte le nefandezze che i suddetti ebrei solevano commettere ai danni di uomini, di donne e di bambini, specialmente. Quindi, attenti! E noi, disciplinati, sull'attenti ci ponemmo per salutare la fine della riunione (o, per meglio dire, dell'adunanza).
Poi ci guardammo in faccia l'un l'altro e prendemmo a chiederci: ma come sono fatti questi ebrei? Tu ne hai visto mai, nei hai mai incontrato qualcuno? Macché. Nessuno di noi aveva mai nemmeno intravisto un esemplare di quella «maledetta» razza ebraica. Poi ci dicemmo che sì, che li avevamo visti e li conoscevamo benissimo. Dire «ebrei» era lo stesso che dire «giudei». E giudei si chiamavano quei nostri più fortunati compagni di scuola che riuscivano a travestirsi tutti di bianco fino alla testa (con due buchi per gli occhi) per partecipare ogni anno (beati loro) alla processione dei sepolcri poco prima della Pasqua, aspettare che il Gesù Cristo di turno quell'anno cascasse per terra per la stanchezza, e poterlo così punzecchiare abbondantemente con le loro lance. Il Gesù Cristo di quei nostri anni beati era anche lui un nostro compagno di giochi, portiere della squadra di calcio del paese che non aveva paura di cascare per terra, munito com'era delle sue «ginocchiere» protettive. E quanto alle punzecchiature crudeli che doveva subire, si vendicava con dei rabbiosi mugugni quand'era per terra e con delle esplicite minacce, quando poteva: «Dopo, faremo i conti!».
Sì, ma come sono, come sono fatti questi ebrei? Continuavamo a chiederci noialtri, più giovani e più ingenui.
Finché non arrivò, anche al cinema del nostro paese, quel celebre film tedesco «Suss l'ebreo» che descriveva e ne raccontava tutte le loro nefandezze.
Allora, pensandoci sopra, decidemmo che un ebreo doveva avere qualcuno dei loro difetti: per esempio, essere tirchio, avaro e avido, avarissimo e avidissimo. Quindi pensammo a quale dei personaggi del nostro paese si poteva meglio attagliare quella definizione. Scegliemmo un certo negoziante di tessuti che avaruccio (nonché aviduccio) un po' c'era e stabilimmo che era lui il nostro «ebreo». Senza infliggergli persecuzioni particolari anche perché non avevamo l'età. Non ancora.
E poi arrivò la Guerra, che rese introvabili le «camere d'aria» indispensabili per gonfiare il pallone. Avevamo altro da pensare, insomma. Gli ebrei c'erano stati - e c'erano - sicuramente in Germania e chissà in quanti altri posti. Ma perché allora scatenare guerre e persecuzioni contro di loro anche noi?
Perché ci comportavamo, ai tempi del fascismo, quando pure dicevamo ogni giorno di essere forti, esattamente come quel marito che fortissimo si ritiene, ma è tutto preso dall'ammirazione per la prestanza del suo amico: «Ma quanto è bello, simpatico e robusto l'amante di mia moglie»?
- BENIAMINO PLACIDO -

 

 
 
 
Dopo la guerra, Beniamino si trasferì a Roma con la famiglia.
I tanti studenti lucani che, in anni lontani e difficili, approdavano nella capitale per seguire i corsi universitari lo conoscevano tutti. Già laureato e avviato ad una carriera prestigiosa, Beniamino continuava ad essere un punto di riferimento, un amico sicuro per tutti loro.
Era sempre pronto a fornire preziosi consigli a quegli studenti disorientati e inesperti che dovevano affrontare la gelida avversità delle baronie universitarie, una casta spesso gelida, sprezzante, spietata con quei figli di contadini del sud, mandati a studiare lontano a prezzo di tanti sacrifici delle loro famiglie.
Ma erano i primi tempi della Repubblica, si respirava l'aria nuova della democrazia: e alla fine quei ragazzi meridionali  riuscirono a farcela.
Con loro Beniamino organizzava anche partite di calcio al Tufello, come se fosse ancora a Rionero; come sempre sul campo di gioco tentava di imitare le prodezze di Schiaffino, il suo calciatore preferito. Per il resto, era sempre lui l'animatore delle serate romane, secondo quanto potevano permettersi gli squattrinati universitari lucani: Arcangelo Brenna, Teodosio Lamorte, Angelo Domenico Libutti, Titino Di Lonardo, Tonino Savella, i fratelli Giuseppe e Mauro Preziuso, Angelo Marciello, Lucio Summa, Raffaele Lapadula, Giovanni Maggio e Liccione di Potenza, Aniello Varlotta, Guglielmucci di Ripacandida e tanti altri.
Appuntamento fisso alle 8,00 alla Stazione Termini: dieci minuti di tolleranza per i ritardatari, poi si decideva cosa fare. Beniamino aveva sempre delle idee geniali, e così in quattro e quattr'otto ti improvvisava un itinerario o un programma. Se era bel tempo - e a Roma c'è l'eterna primavera - si bighellonava per il centro o per le ville romane, alla scoperta di sempre nuovi posti e opere d'arte. Se era cattivo tempo: Ambra Jovinelli per tutti. Beniamino arrivava con Paese Sera sotto il braccio, per vedere cosa si proiettava a cinema. E se non si raccoglieva la somma occorrente per comprare i biglietti per tutti, pazienza: di solito ci pensava lui a mettere il resto...
Erano altri tempi, un'altra Italia.
 
Vogliamo anche trascrivere un bel ricordo di Stefano Rodotà, apparso nel 2006 su Repubblica. Rileggendolo oggi, è davvero il miglior saluto che si possa dare ad un amico.

Ciao, Beniamino.

 

 
     
 
Quando arrivò in casa quel gran mazzo di rose
 di STEFANO RODOTA', REPUBBLICA, 1 febbraio 2006, pagina 42, sezione cultura
Tratto da:
 
     
 
Quando ho conosciuto Beniamino, anzi per me sempre Mimmino, egli era il lord protettore, la guida spirituale, il tramite con il mondo di una comunità di singolari studenti universitari lucani addensati tra Piazza Bologna e Piazzale delle Province.
Ci avviavamo verso la metà degli anni Cinquanta, e chi arrivava a Roma, e tra questi c'ero anch'io, conosceva variegati riti d'iniziazione, ovviamente legati ad un passaggio dalla provincia alla grande città che allora era davvero l'immersione in una dimensione del tutto diversa, poiché lo scarto tra quelle due realtà non era mediato e ridotto da un sistema dei mezzi d'informazione che consentiva di trasmettere e rendere subito comuni conoscenze e esperienze. Si entrava in un altro mondo e, per chi avesse questa propensione, si sviluppavano mille curiosità.
Mimmino mi apparve subito come chi delle curiosità si era impadronito, e ne aveva sviluppato un singolare metodo di governo. Se il tramite per arrivare a lui erano stati i "lucani", subito mi apparve saldamente insediato in quell'altro mondo, che percorreva con levità, ma senza compiacenze o concessioni. Se ci fu qualcosa che me lo fece subito sentire vicino, questo fu proprio il bisogno di gettare l'occhio su tutto, o quasi, senza esclusioni intellettualistiche o snobistiche. E dunque avanspettacolo e grande critica letteraria, calcio e università, generi nascenti ed esperienze in via d' estinzione, attenzione politica e rigoroso pettegolezzo. Discutendo o chiacchierando con lui, si avvertiva che egli non proponeva gerarchie, ma criteri rigorosi di giudizio. Se di tutto era legittimo interessarsi, questo non autorizzava l'ingagglioffirsi, né il legittimo pettegolezzo permetteva di guardare alla storia o alla politica con l'occhio del cameriere. E così, senza farli pesare, cadevano il riferimento o la citazione per mettere nel posto giusto lo spettacolo di rivista, il romanzo appena uscito, un dibattito parlamentare.
Non mi sembrò strano, quindi, che egli diventasse acclamato e temuto critico non solo della sua amatissima letteratura americana, ma di quello che davvero gli appariva il "nuovo mondo" dei tempi nostri, la televisione. Ha inventato un genere dopo aver messo le mani sul nuovo mezzo, in quell'allegra e rigorosissima mescolanza che sono state le sue "serate". Veloce com'è sempre stato nel cogliere la sostanza delle questioni, non ha mai trascurato i dettagli, ma mai ne è rimasto prigioniero. Ne ebbi una prova diretta quando, all'epoca in cui preparava il concorso per la Camera dei deputati, venne un paio di volte a casa mia con l'argomento che voleva un po' saggiare la sua preparazione nelle materie giuridiche. Fu subito evidente che delle tecnicalità si era immediatamente impadronito, e davvero non gli serviva alcun sostegno esterno. E così le nostre chiacchierate divenivano un interrogarsi su quale fosse davvero il ruolo del diritto costituzionale, quale la funzione del Parlamento e il modo in cui tutto questo dava forma alla politica, e più ancora alla cultura che doveva sostenerla.
Il mio tempo parlamentare non ha coinciso con il suo. Quando divenni deputato, Mimmino aveva già lasciato la Camera. Ma la nostra costante frequentazione, intensa in particolare agli inizi degli anni Sessanta, si è svolta anche nei luoghi parlamentari, allora assai più accessibili di adesso, dove arrivavo come frequentatore della biblioteca o curioso di politica o semplicemente come amico, scoprendo così non solo affinità tra le mie prime ricerche sui computers e le sue pionieristiche iniziative per l'informatizzazione dei servizi della Camera, ma pure l'attenzione e il rispetto che per la sua cultura avevano tanti parlamentari (un fatto che oggi mi sembra irripetibile).
Anche lì, si potrebbe dire con espressione abusata, Mimmino era riuscito a divenire "punto di riferimento", scavalcando e rendendo ridicole gerarchie e burocrazie.
Ma nella mia vita parlamentare Mimmino ha un posto particolare, legato ad un episodio assolutamente unico. Una mattina presto suonano alla porta di casa, ed un fattorino mi consegna un bellissimo fascio di rose rosse. Apro il biglietto che l'accompagnava, con un lieve senso di colpa perché ritenevo di violare la riservatezza di mia moglie, e invece leggo d'essere io il destinatario del dono, che Mimmino aveva voluto mandarmi avendo letto su Il Manifesto il testo di un mio discorso alla Camera del giorno prima.
Infrangendo una regola rigidissima soprattutto tra meridionali - non ci si scambiano fiori tra uomini, meno che mai rose rosse - Mimmino mi arrivava davvero al cuore. Ed ho sempre voluto pensare che con quel gesto atipico volesse sottolineare la singolarità della mia posizione parlamentare, una sorta di irriducibilità agli schemi abituali. La sua costante attitudine scherzosa non è mai sottovalutazione. Al contrario. E' il modo per mostrare, con grazia, senza pedanteria, che non ci si deve prendere troppo sul serio.
Le cose possono essere serie e gravi, e come tali vanno trattate, senza però che questo consenta a chi le tratta di mettersi pennacchi o salire a cavallo. Tanto più grandi sono le cose, tanto maggiore dev'essere l'umiltà nell'affrontarle. Forse mai come con lui l'ironia mi è apparsa così nitidamente come la misura delle cose.
- STEFANO RODOTA' -

 

 
 Pasquale Libutti   rapacidiurni@gmail.it       Pagina connessa a www.storiedelsud.altervista.org